SILSIS MILANO
AREA DI SCIENZE
DELL’EDUCAZIONE
A.A. 2007-2008
Milano, 7 Marzo 2008
Coordinamento: prof.
prof.
Valutazione e valorizzazione nei processi di insegnamento-apprendimento.
Esperienze personali e professionali
v
Assimilazione:
adattamento al modello-proposta culturale dell’altro (genitore, insegnante,
etc.); il soggetto deve conformarsi al sapere proposto.
v
Integrazione:
accoglienza da parte dell’altro (genitore, insegnante, etc.) dei tratti
culturali dell’interlocutore nel rispetto delle modalità e dei valori
socialmente stabiliti.
v
Scambio
culturale: incontro e arricchimento vicendevole tra sé e l’altro (genitore,
insegnante, etc.) come occasione di confronto e di trasformazione.
Prova a riflettere sulla tua
esperienza di valorizzazione (“a) Racconta per iscritto un episodio della tua esperienza
formativa nel quale ti sei sentita/o valorizzata/o“);
la definiresti un processo di assimilazione, d'integrazione o di scambio
culturale? Perché?
Quale strategia è stata messa in
campo quando sei stata/o valorizzata/o?
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b) Racconta
per iscritto un episodio della tua esperienza formativa nel quale ti sei
sentita/o non valorizzata/o. (Il
testo sotto riportato può aiutarti a suscitare qualche ricordo personale)
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Insomma, andavo male a scuola. Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l'ultimo della classe, ero il penultimo. (Evviva!) Refrattario dapprima all'aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografico, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazione dei luoghi geografici, inadatto all'apprendimento delle lingue straniere, ritenuto pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti), portavo a casa risultati pessimi che non erano riscattati né dalla musica, né dallo sport né peraltro da alcuna attività parascolastica. "Capisci? Capisci o no quello che ti spiego?" Non capivo. Questa inattitudine a capire aveva radici così lontane che la famiglia aveva immaginato una leggenda per datarne le origini: il mio apprendimento dell'alfabeto. Ho sempre sentito dire che mi ci era voluto un anno intero per imparare la lettera a. La lettera a, in un anno. Il deserto della mia ignoranza cominciava al di là dell'invalicabile b.
"Niente
panico, tra ventisei anni padroneggerà perfettamente l'alfabeto."
Così
ironizzava mio padre per esorcizzare i suoi stessi timori. Molti anni dopo,
mentre ripetevo l'ultimo anno delle superiori inseguendo un diploma di maturità
che si ostinava a sfuggirmi, farà questa battuta: "Non preoccuparti, anche
per la maturità alla fine si acquisiscono degli automatismi...".
O,
nel settembre del 1968, quando ho avuto finalmente in tasca la mia laurea in
lettere: "Ti ci è voluta una rivoluzione per la laurea, dobbiamo temere
una guerra mondiale per il dottorato?".
Detto
senza alcuna particolare malignità. Era la nostra forma di complicità. Mio
padre e io abbiamo optato molto presto per il sorriso.
Ma
torniamo ai miei inizi. Ultimogenito di quattro fratelli, ero un caso a parte. I
miei genitori non avevano avuto occasione di fare pratica con i miei fratelli
maggiori, la cui carriera scolastica, seppur non eccezionalmente brillante, si
era svolta senza intoppi.
Ero
oggetto di stupore, e di stupore costante poiché gli anni passavano senza
apportare il benché minimo miglioramento nel mio stato di ebetudine scolastica.
"Mi cadono le braccia", "Non posso capacitarmi" sono per me
esclamazioni familiari, associate a sguardi adulti in cui colgo un abisso di
incredulità scavato dalla mia incapacità di assimilare alcunché.
A
quanto pareva, tutti capivano più in fretta di me.
"Ma
sei proprio duro di comprendonio!"
Un
pomeriggio dell'anno della maturità (uno degli anni della maturità), mentre
mio padre mi spiegava trigonometria nella stanza che fungeva da biblioteca, il
nostro cane venne quatto quatto a mettersi sul letto dietro di noi. Appena
individuato, fu seccamente mandato via: "Fila di là, cane, sulla tua
poltrona!".
Cinque
minuti dopo, il cane era di nuovo sul letto. Ma si era preso la briga di andare
a recuperare la vecchia coperta che proteggeva la sua poltrona e vi si era steso
sopra. Ammirazione generale, ovviamente, e giustificata: tanto di cappello a un
animale in grado di associare un divieto all'idea astratta di pulizia e trarne
la conclusione che occorresse farsi la cuccia per godere della compagnia dei
padroni, con un vero e proprio ragionamento! Fu un argomento di conversazione
che in famiglia durò per anni. Personalmente, ne trassi l'insegnamento che
anche il cane di casa afferrava più in fretta di me.
Credo
di avergli bisbigliato all'orecchio: "Domani ci vai tu a scuola,
leccaculo!".
Daniel Pennac, Diario di scuola,
Feltrinelli, Milano 2008 - p 15